Nella Bella addormentata nel bosco la principessa alla fine cade nel tranello che realizza la maledizione lanciata dalla fata cattiva: a quindici anni si punge il dito con un fuso e muore. Nonostante il re avesse proibito gli arcolai in tutto il regno. La fiaba avrebbe potuto seguire un percorso diverso se il padre avesse istruito la figlia a usare in maniera corretta gli arcolai, in modo da non pungersi. Silvano Tagliagambe ricorre a questa metafora per spiegare l’approccio che il sistema scolastico dovrebbe avere oggi di fronte alle tecnologie: “È innegabile che possano avere controindicazioni e rischi – afferma il filosofo della scienza ed esperto di modelli didattici -: non c’è dubbio che la velocità insita nel multitasking digitale possa diminuire la capacità di concentrazione e la memoria, ma questo non significa che la soluzione sia escluderle dalla scuola: al contrario bisogna riequilibrarne gli utilizzi in modo da favorire un uso consapevole e utile sia in classe che all’esterno”.
Il tema dell’introduzione del digitale a scuola è uno di quelli che ancora oggi divide e crea polemiche. Non ci sono evidenze scientifiche certe sull’effetto delle tecnologie sull’apprendimento, mentre l’esperienza quotidiana di utilizzo da parte dei giovani (ma non solo) di smartphone e tablet va nella direzione di uno sfruttamento superficiale e parziale delle enormi potenzialità degli strumenti che hanno in mano.
Lo conferma anche il rapporto sul digital reading pubblicato recentemente dal ministero dell’Istruzione: gli studenti italiani hanno buone capacità di navigazione generica sul web, ma si smarriscono facilmente quando si tratta di fare ricerche più raffinate e approfondite. E ancora, in linea, con i risultati del rapporto Pisa dell’Ocse, anche in Italia l’uso del computer è fortemente condizionato dalle condizioni socio-economiche: “La disparità digitale sembra essersi spostata dalla differenza di possibilità di accesso alle tlc all’utilizzo che gli studenti ne fanno: gli svantaggiati navigano più per motivi ludici rispetto agli avvantaggiati che si connettono anche per un uso informativo e di comunicazione”, afferma il rapporto. Il quale conclude che “emerge chiaramente la necessità di integrare le tecnologie digitali nella didattica e di sperimentare nuove metodologie nella pratica pedagogica quotidiane”. E più avanti sottolinea come “l’insegnamento nel XXI secolo non deve considerare la tecnologia come il centro del processo educativo, deve piuttosto promuoverne l’uso consapevole e critico, attraverso pratiche che abbiano l’obiettivo di formare studenti in quanto e-citizen consapevoli, aggiornati e creativi”.
“Sia chiaro, il digitale non risolve proprio nulla, anzi ti crea problemi”, afferma senza mezzi termini Roberto Maragliano, docente di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento presso l’Università Roma Tre. E precisa: “La tecnologia ha il grosso pregio di essere trasparente: permette di vedere cose che prima non potevi vedere. Quindi oggi ci permette di comprendere che l’apprendimento è un processo complesso, per il quale non è più sufficiente il vecchio modello di apprendimento statico frontale basato sulla spiegazione e sulla restituzione, molto semplice e rassicurante, ma non adatto ai tempi attuali”. Il digitale permette così di portare anche tra le mura delle classi la complessità della realtà esterna e consente, per esempio, di sfruttare l’integrazione tra vari linguaggi: non solo la lingua scritta, ma anche l’audio, il video, l’immagine, tutti insieme.
“Ma – prosegue Maragliano – costringe a rimettersi in gioco per ridiscutere cosa e come insegnare, così come a cambiare la qualità dei contenuti, e non è un caso che oggi il digitale sia sfruttato più facilmente nella scuola primaria, laddove c’è maggior flessibilità e maggior attenzione all’apprendimento spontaneo, mentre nella secondaria prevale la disciplina rigida dettata dalle materie”.
Ma non tutti concordano con queste visioni: c’è chi lascia spazio allo scetticismo e alle paure di fronte all’innovazione digitale. “La tecnologia può produrre risultati eccezionali se applicata nella scuole con funzioni strumentali e se non proposta in chiave imitativa, così come è successo finora – sostiene Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre -: i bambini hanno bisogno di stabilire una connessione funzionale tra la capacità mentale e la sua traduzione in azioni: è un processo molto complesso, che deve essere supportato nel suo sviluppo. La scrittura è un’attività assolutamente necessaria a questo scopo costringendo a elaborare il pensiero per arrivare a ragionamenti logici e strutturati, mentre la sostituzione con la tastiera impedisce questo apprendimento”.
Vertecchi elenca quelli che, sulla base di un’adozione scriteriata e mirata al breve periodo della tecnologia nelle aule, sono le conseguenze che sta verificando tra i ragazzi: una caduta nella capacità di scrivere, sia sotto forma di difficoltà nell’ortografia – affidata ai correttori automatici – che nella capacità di organizzare correttamente i concetti; il dominio del “copia e incolla” provoca una seria difficoltà di coordinare e strutturare il pensiero che si trasforma in conseguenti problemi dell’apprendimento; la certezza di riuscire a trovare sempre una risposta all’esterno della propria testa porta a un preoccupante deterioramento della memoria. Insomma Vertecchi non ha dubbi: la scuola deve tornare a puntare sulle attività manuali libere e sulla scrittura e vietare i device tecnologici prima dell’adolescenza.
A denunciare il modo casuale e controproducente con cui sono state introdotte le tecnologie nelle aule italiane – nello specifico il vecchio progetto Classi 2.0 – è anche Adolfo Scotto di Luzio nel recente libro Senza educazione. I rischi della scuola 2.0 (Il Mulino), in cui denuncia la fiducia eccessiva nel potere quasi magico del digitale che avrebbe potuto risolvere in un sol colpo tutti i problemi della scuola italiana. E indica come conseguenza lo strapotere che tablet e computer hanno oggi nella scuola con conseguenti problemi nell’apprendimento. La sua conclusione è lineare: sono in primo luogo i buoni insegnanti a fare una buona scuola.
Su questo concorda anche Dianora Bardi, vicepresidente di ImparaDigitale e pioniera dell’utilizzo del digitale nella scuole: “Non c’è dubbio che la tecnologia da sola non faccia una buona scuola, anzi è inutile parlare di didattica digitale: la didattica è didattica e basta, e deve essere ripensata in una modalità di costruzione del sapere condivisa e partecipata tra docenti e studenti, in cui i ragazzi possano diventare protagonisti del loro stesso percorso di apprendimento”. La tecnologia può certo isolare, ma se ben usata può aprire nuovi spazi di collaborazione e di approfondimento: “Dobbiamo così rendere consapevoli i nostri studenti per poterla utilizzare al meglio, in maniera consapevole e critica: ci può aiutare moltissimo nel costruire un modello di scuola nuova, che possa mettere i ragazzi in condizione di affrontare il mondo che li aspetta”.
Anche l’Ocse sottolinea nel suo report dedicato al digitale a scuola che “aggiungere le tecnologie del XXI secolo alle pratiche di insegnamento del XX semplicemente diluisce l’efficacia dell’insegnamento: la tecnologia può amplificare l’effetto di un ottimo insegnamento, ma un’ottima tecnologia non può sostituire un cattivo insegnamento”
Si tratta allora di essere innovativi nell’utilizzo della tecnologia e saperla utilizzare in maniera mirata. Come nel progetto messo a punto, sotto la guida di Silvano Tagliagambe, da Up School, scuola primaria paritaria di Villino Campagnolo, nel cagliaritano, dove à stato introdotto un fablab, dove la stampanti 3D vengono direttamente montate spiegando il processo conoscitivo connesso a ogni passaggio, per poi utilizzare la macchine per stampare degli oggetti progettati direttamente dai bambini: un metodo che esalta il valore della progettazione, della verifica e delle correzioni in corso d’opera, in un processo necessariamente lento di riflessione e di capacità creativa: “Il bambino viene accompagnato in un uso consapevole della tecnologia, in un procedimento che replica i problemi che ci troviamo di fronte nella realtà, fatti di fenomeni complessi e interconnessi che non possono essere scomposti in sottoproblemi separati, come si fa a scuola dove si affrontano le materie in maniera separata”.
Si tratta di un approccio in buona parte adottato anche dal Piano nazionale scuola digitale, partito operativamente nell’ultimo scorcio dell’anno scorso: “Più che su strutture tecnologiche pesanti, come è stato fatto in passato, abbiamo scelto di puntare su infrastrutture leggere – la connessione in banda larga e il wifi negli edifici, con investimenti complessivi per 600 milioni di euro – spiega Damien Lanfrey, della segreteria tecnica del ministro dell’Istruzione – proprio perché non vogliamo investire su infrastrutture che possono risultare inutili, ma su persone che siano in grado di innovare”.
A inizio hanno iniziato a operare ufficialmente gli 8mila animatori digitali, insegnanti scelti dalle singole scuole e deputati a far da volano alla progettazione innovativa in chiave digitale: a marzo partirà la loro formazione, mentre è già partita una community informale degli animatori per condividere i progetti e i piani dell’offerta formativa digitale, un processo che diventerà sempre più rilevante. Circa 500 di loro saranno scelti per una formazione specifica all’estero: “Il focus è spostato sulla didattica – prosegue Lanfrey -: la scelta dell’animatore ha avuto il merito di mettere già l’innovazione digitale al centro della scuola”.
L’importante intanto è che non prevalgano posizioni integraliste in un senso o nell’altro. D’altra parte la fine della Bella addormentata la sappiamo già: la principessa deve aspettare cento anni per essere risvegliata dal Principe azzurro. Ma per il digitale un secolo è un’era geologica: la scuola deve adeguarsi velocemente prima che sia troppo tardi.